Scoperte recenti dimostrano sempre di più che il primo bisogno del bambino è proprio quello di essere rassicurato, di sentirsi protetto, contenuto. Recenti osservazioni, comportamentali e fisiologiche, su lattanti e le loro mamme hanno dimostrato che un’interazione è pronta ad instaurarsi già nei primi minuti di vita.
Il primo contatto
Posto sul ventre della madre, ancora prima che gli venga proposto il seno, il bebè striscia verso il capezzolo della mamma. In poco più di un’ora il neonato affronta un viaggio, guidato dall’odore del capezzolo. Un viaggio mantenuto alla giusta temperatura dal corpo della madre. In un primo tempo, per almeno 30 minuti, il bambino da fermo guarda la madre, incrocia il suo sguardo, cerca sicurezza; e solo dopo, per i successivi 10 minuti, comincia a muovere le labbra e mettere le mani in bocca. Lentamente spinge il suo corpo in avanti effettuando pressioni importanti sul ventre della madre, girando la testa a destra e a sinistra. Giunto all’altezza dello sterno, preme la testa contro il petto. Il viaggio è terminato, la meta è stata raggiunta: il capezzolo della madre. Questo contatto pelle a pelle ha un effetto calmante e rassicurante sul bambino. Il bambino ritrova nel corpo della madre un luogo a lui più familiare anche in termini di microbi e di capacità difensive.
La prima difesa
Durante la gravidanza, le IGC (anticorpi di debole peso molecolare) attaccano il feto attraverso la placenta, in modo che alla nascita il neonato è adattato a microbi satelliti della madre e non ai microbi estranei all’ambiente familiare. E’ importante, soprattutto in ospedale, che il bambino sia “contaminato” prima possibile dai microbi trasmessi dalla madre, pertanto che stia da subito in contatto con lei, qualsiasi tipo di parto la donna abbia vissuto. Il colostro a sua volta protegge il sistema digestivo dai microbi esterni.
Grazie al contatto continuo, il neonato viene aiutato nella regolazione del battito cardiaco e del respiro e sulla termoregolazione.
La natura del contatto
Per quanto tempo e quando portare?
In occidente si pensa che portare un bambino sia sinonimo di trasportare. In altre culture, invece, ancora oggi portare significa “tenere” il bambino in braccio, giorno e notte. Secondo Katerne Duttwyler, l’uomo è, da un punto di vista antropologico, una specie a “contatto continuo” perché il piccolo è portato sul corpo della madre (come accade per i marsupiali e la maggior parte dei primati). A loro volta anche gli scimpanzé, i gorilla, gli oranghi e quindi l’uomo, appartengono alla categoria di quelli che “portano i cuccioli sul loro corpo”. Per le scimmie, nostre supposte cugine, è la madre ad essere il “nido”. Il piccolo si aggrappa con le mani ed i piedi alla pelliccia della madre ed è portato in maniera ininterrotta per il primo periodo della sua vita. Ciò significa che quando i nostri antenati non avevano ancora guadagnato la posizione eretta, probabilmente il bebè si aggrappava ai peli del corpo del genitore, il legame madre/figlio era mantenuto dal bambino. Quando i nostri antenati guadagnarono la posizione eretta e poi persero i peli, il bambino era portato tra le braccia e sul fianco, in questo caso la madre doveva impegnarsi maggiormente per mantenere il contatto.
E la cultura del contatto
Oggigiorno sembra incredibile pensare che una volta nato il bambino debba stare in permanenza a contatto con la madre. In commercio vengono proposte cullette primi giorni, primi mesi, passeggini, etc.
Se il bambino sta a contatto continuo con il corpo della madre, è lui stesso che guida la madre verso la più giusta soddisfazione dei propri bisogni. Se invece il bambino è separato dalla madre, la comunicazione tra i due diventa più difficile. Purtroppo con l’introduzione del latte artificiale nell’alimentazione del neonato, negli ultimi 100 anni si è costruita un’immagine del neonato che non corrisponde alla specie mammifera a cui apparteniamo. I bambini sono nutriti ogni 3 o 4 ore, dormono tranquillamente altrove, separati dalla madre, vengono ignorati i loro pianti.
Molti genitori temono di viziare i propri bambini se li prendono in braccio, se li toccano, se li accarezzano, se comunicano il loro amore attraverso il contatto. Molti specialisti affermano sempre più che è impossibile viziare un neonato, dato che la soddisfazione dei suoi bisogni è una necessità assoluta. Riconoscere i bisogni di un bambino fa sì che egli si senta amato, approvato e lo aiuta a sviluppare autostima. Ritrovare la sensazione di appagamento permette al bambino di sviluppare un atteggiamento di fiducia verso chi si occupa di lui e dell’ambiente che lo circonda. Chiamare vizio un bisogno significa non conoscere i bisogni di un neonato e non sapere cosa significa vizio.
Se cerchiamo sul dizionario le parole vizio e bisogno troviamo:
Vizio: abitudine inveterata (da essere difficilmente corregibile) e pratica di ciò che è o può essere dannoso.
Bisogno: necessità di procurarsi qualcosa che manca.
Affinché un piccolo bebè riesca ad entrare nel meccanismo del vizio, avrebbe bisogno di un cervello più complesso, capace di tali ragionamenti.
Tratto da: Portare i bambini – Contatto continuo, come e perché – Autore: Grazia De Fiore – Coleman Editore
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